Storie
Quando nel centro antico di Bacoli passava l'arrotino, ‘o molafuorbice

Quando nel centro antico di Bacoli passava l'arrotino, ‘o molafuorbice

Periodicamente, ogni due-tre mesi, nel Centro Antico di Bacoli passava l’arrotino. Era un ometto che non arrivava al metro e settanta, dai capelli riccioluti e neri come la pece, dal volto scuro e segnato da una larga cicatrice sulla guancia destra. Spingeva il suo tipico carrettino da lavoro, tra le anguste strade del Borgo dei Pescatori, sgolandosi con un caratteristico richiamo: “Signò, ‘o molafuorbice.

Le donne del quartiere tenevano il crocchio e (tra nu ‘nciucio e n’ata) con forbici e coltelli si concentravano intorno alla sua bottega ambulante, provando a restituire l’antico taglio a vecchie forbici e rugginosi coltelli. Ma era il classico specchietto per le allodole, perché, ‘o molafuorbice, pur adoperandosi come meglio non poteva, sapeva benissimo che non avrebbe mai potuto restituire l’antico splendore a utensili ormai già buoni per il rubivecchi.

Dal varco aperto sotto “’a casa ‘i Firmina” (‘u curreturo - corridoio), si accedeva alla “strada” per la Marina del Poggio: un classico sentiero di campagna, dal paesaggio unico e suggestivo, a forza di braccia tracciato in quel luogo campestre. Era un percorso a fondo naturale, sterrato, stretto e tortuoso, a sinistra fiancheggiato da una parete scoscesa di tufo e a destra da filari di viti e alberi da frutto. In alcuni momenti dell’anno, soprattutto d’estate, quando la terra e il tufo andavano in ebollizione, si verificava una strano fenomeno ottico, tanto che la stradina sembrava viva, come un serpente strisciante. Poche misere case, paragonabili a baracche fatiscenti, a vere e proprie catapecchie prive di comodità, animavano la verde distesa di “vasce all’uorto” (Via Pagliaro).

Ogni tanto, dal piano di campagna, giungeva qualche voce amica, come quella di ‘Giulinella ‘a Cappellesa, che malediva i maiali e le sue dannatissime galline, o silente, come quella di zì Lione (Leonida). Zì Lione, al parlare, preferiva il silenzio. Tanto, a farlo per lui, ci pensava l’altezza. Era alto più di due metri e filiforme come una festuca di paglia. Il tono di voce baritonale, da cavernicolo, e la sua altezza, incutevano soggezione e rispetto, al punto che per noi bambini era grande il timore di avvicinarlo. Ma, in realtà, zì Lione era buono più del pane appena sfornato di nonna Maria o del panettone della “cummara” Ninella.

Lido Campi Elisi
Lido Campi Elisi

Ancora poche decine di metri e si giungeva nei pressi di un cancelletto, tenuto in piedi alla bell’e meglio da assi e coste tremolanti, disposte in modo raffazzonato. Da questa fantastica postazione, si aprivano le porte del Paradiso. La piccola insenatura, il basso rilievo del Poggio e il Monte Miseno in lontananza, facevano da cornice ad una sabbia dorata, carica di storia, di mito, di leggenda. Ad accompagnarci alla spiaggia, alla libertà, alla gioia di vivere, era una lunga scalinata (76 scalini) scavata nella pietra viva. Là, sull'arenile, c’era Nunzio P., disteso al sole come la carcassa di una balenottera spiaggiata. La marea lambiva le bianche piante dei suoi piedi nudi, salendo fino ad accarezzare i polpacci, che premevano sulla battigia. Il viso glabro, ancora da fanciullo, gli occhi celati sotto le palpebre abbassate, davano la sensazione che fosse un erote dormiente visitato da rosei sogni; oppure di un bambino terribile, che fingesse di dormire, nell’intento di preparare un tiro burlone alle persone che gli stavano intorno.

E di “tiri” da preparare Nunzio P. ne aveva, eccome se ne aveva. Proprio davanti a lui, immerse a meno di mezzo metro d’acqua, c’erano tre donne: Luisella ‘a rossa, Caterina ‘i Ganghisse e zì Amelia. Tutte e tre, dalla testa ai piedi, rigorosamente vestite di nero. Il sentimento d’intenso dolore, che avevano provato alla perdita di una persona cara, per loro doveva essere eterno e assolutamente visibile.

Nel mondo di allora, quando si andava al mare, per alcune donne significava indossare un abito castamente pudico, anche per sviare occhiate sfacciatamente lussuriose; per cui, non c’era lembo di pelle dei loro corpi che non dovesse essere stato - accuratamente - ricoperto da calze, veste lunga e velo, con quest’ultimo, di seta o di organza, al mento stretto annodato. Praticamente, delle tre, si distinguevano solamente le mani e la faccia.

Nunzio P. sembrava un cadavere disteso sulla calda rena di Marina del Poggio. Una vociante moltitudine colorata di persone, proveniente da tutte le parti della piccola spiaggia, credendolo morto, si era assiepata intorno a lui, con espressioni di pietà, indifferenza, curiosità, cinismo. Ogni condizione del sentimento umano era là rappresentato. Nunzio P. ascoltava e non batteva ciglio.

L’acqua, di colore azzurro turchese, era limpida e trasparente. Da fuori si poteva vedere il fondo marino, con resti di praterie di posidonia e di donzelle di mare, dalle svariate dimensioni, che pascolavano in piccoli branchi. Più in là, seduta sul “dollaro” (tipico scoglio della marina), una signora napoletana seguiva con lo sguardo i suoi bambini che giocavano a spruzzarsi l’acqua, mentre, a meno di mezzo metro di profondità, c’erano gli stinchi delle tre donne “osservanti” di nero bardate.

I commenti, sommessi, erano nell’aria, come vibrazioni emesse da invisibili strumenti. Echeggiavano le domande dei curiosi, in un’atmosfera quasi irreale. Perché era strana, in quella cornice di festosa vitalità, la cupa presenza di quelle donne vestite di nero. Improvvisamente, Nunzio P., sentendosi osservato, si alzò di slancio e, con un balzo felino, si tuffò in acqua, travolgendo le tre dame a bagno Maria.

Articoli Correlati